Ieri, alle prime luci del giorno, semi-aprendo gli occhi, ho realizzato che era tutto, solo, sogno.
Ero in ufficio, forse il mio, non so, solo una cosa ricordo come familiare, la tastiera del mio computer.
Ho una tastiera aggiuntiva in ufficio; è una di quelle che tu colleghi come periferica esterna: è più grande, più nera, più veloce, ha più spazio tra un tasto e l'altro - le tue dita, non si inceppano - non ti capita mai di schiacciarne uno per un altro, come adesso, sai sempre, lì, cosa stai premendo, non torni indietro.
La prima immagine che ricordo, è un uccellino, di quelli piccoli piccoli, senza piume, solo pelle, rosa e troppa, che quelle pieghe li caratterizzano; trovo questo essere e altro non fa che pigolare, incessantemente. Una, due, tre volte, finché non arriva un uccello più grande, che inizia, ogni tanto, tra un lamento e l'altro, a sfamarlo. L'uccello, piccolo, sbucava con la testa dalla mia tastiera, nel vuoto lasciato tra due tasti, sulla parte sinistra, dove trovi la lettera effe, era lui, inserito in quella fessura, con la sola testa protesa verso l'esterno, a pretendere cibo.
Secondo ricordo, credevo fosse una balena; questa mattina bevevo un succo di pesca, scendendo dalle scale, ed ho capito: non era una balena, bensì un capodoglio. Lo trovavo in un sacchetto, di quelli trasparenti, come le buste dei pesci quando li vinci alle giostre: osservi attraverso la plastica come si muovono, lui, però, era fermo, ma non morto, solo, non stava nuotando. Nella testa, in quell'istante, solo una domanda: quando cresce, lo tengo nella vasca da bagno? Nella mia realtà, non c'è, la vasca.
Il capodoglio inizia a crescere, finché si arriva al punto che, in quel sacchetto, così sacrificato, proprio no, non può rimanere – nel mio sogno, decido quindi, di farlo scomparire, immaginando, ma non vedendo, l'animale in acque aperte.
Scompare la quasi balena, ricompaiono i volatili. Secondo pulcino all'orizzonte, che guardando la tastiera, un po' decentrati, il primo più sulla sinistra, il novellino invece a destra, sembrano a casa, e urlano di voci stridule, ed incessanti.
Senza sapere bene come, il primo, sempre tra i tasti, lo vedo che inizia a beccare la carcassa di un pollo morto che, magicamente, era comparsa tra i due. Brutale, con la fame, quella vera. E' come guardare un bambino, cannibalizzare un adulto, contro natura, macabro.
Mi giro, mi allontano, contenta di aver scoperto che, dopo tutto, sopravviveranno.
Dopo poco, di nuovo avvicinatami alla tastiera, succede: esalano l'ultimo respiro, con la testa piegata da un lato, entrambi, socchiudono gli occhi, con sofferenza, e spirano.
Apro gli occhi di corsa, è finita, sono le sei del mattino. Ricordo di nuovo perché, per quale motivo il sonno è turbato. Godo, di quell'ora però che ancora mi rimane pre-ufficio, e, finalmente, dormo.
Sveglia alle otto e mezza, con calma, con il sogno stampato in testa, mi calo, bevendo di nuovo il succhetto da merenda all'asilo, giù per le scale, in silenzio, tutti curiosi di sapere di ieri: oggi, io, non dico nulla, “scendo la clèr” e chiudo i battenti: chiamiamolo silenzio stampa, o stanchezza, o ferie e vacanze, e demenza, e non voglia, o riservatezza o come vi pare: non importa.
Forse, se mi andrà, racconterò tre versioni: la mia, la tua, i fatti. La prima persona, la terza, l'onniscenza.
Prologo della una storia di un campo minato.
june 9th, 2011
01:55 am
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