Scocca la settimana, quella passata senza fumare, costellata di nervosismo e a volte di scazzi epici - perché devi pur prendertela con qualcuno - che meglio di cenerentola a mezzanotte, qualcosa si trasforma.
I sette giorni dell'attesa, durante i quali riduci al minimo i tuoi sforzi.
Arrivi in ufficio la mattina, la stanza è vuota, la tua postazione è in perfetto ordine.
Schiacci il bottone per avviare l'accensione del computer, posi la borsa sulla scrivania, lanci il badge - ecco perché poi, puntualmente, lo perdi - ti togli le cuffie, spegni l'ipod, se la tua sedia non fosse così bassa, staresti per sederti. La fissi un po', tiri su quella levetta che ad aria fa PFFFFFFFFFFFFFFFF e tutta ringalluzzita la vedi, che sale, fino al massimo l'altezza della seduta e poi, finalmente, è mattina e già crolli.
Appoggi prima il tuo sedere spinto bene indietro, non "in pizzo", cede il tuo dorso sullo schienale, quasi a spanciarti un po', il collo deve far resistenza per non lasciarti penzolare all'indietro la testa, e le braccia abbandonate, anch'esse cadono, giù.
Questa è la seconda parte più bella della tua giornata, i tuoi piedi non toccano terra, tu come fossi su un'altalena li muovi, li alterni, e si sente l'aria, li attraversa, e sei fresco, e lo sono anche i tuoi calzini. Ti guardi un po' intorno, e per i primi 5 minuti, non fai assolutamente nulla, dondoli un poco i piedi, o forse solo lo immagini.
Spesa la giornata, comunque sia andata, ma solo se c'è ancora luce (immagina il sole estivo delle otto di sera, insomma), ogni volta, quando scorgi la targa della via dove abiti, inizi a fantasticare. Ci sarà qualcuno che ha deciso di piombarti sotto casa, per la famosa chiacchiera chiarificatrice. Se sì, chi?
Percorsa metà della via, noti presenze umane, ma tu, non ci vedi bene, continui a scorrere tutti quei volti che potrebbero essere lì per aspettare proprio te, facce che pian piano disegnano confini, le bocche, gli occhi, le voci, visi che potrebbero essere il tuo, lì a comunicarti qualcosa di importante.
Così un po' acceleri il passo, ma non corri, perché già sai, che sulla sedia, con i piedi nei sogni, ti sentivi meglio.
29 June, 2011
14 June, 2011
ninna nanna.
c'era una volta, una bambina, buona,
boccolosa, ed anche, un po' paffutella.
molto timida, ma, sempre sorridente,
prestissimo, lei, aveva imparato a parlare.
sognava di voli, sollevata in quell'aria,
scendeva le scale, ampie di corrimano.
portava la pizza, lei, giù per le scale,
e inciampando scendendo, incredibilmente volava.
le scarpe e calzini, e pizzi e quadretti,
e guance ridenti volando più su.
era di fate, era beata,
era sorrisi, di giorno ogni dì.
bambina era gaia, si sentiva buona,
sempre di tutto, il colore più rosa.
posava per foto, di album a natale,
le mani appoggiate, sulla panchina.
cotone di neve, le sembrava per sempre,
ogni giorno era luci, era uovo sul pane.
con le nonne l'estate, l'acquisto dei fiocchi,
di nastri adornata, attendeva i momenti.
la minuta sorella, era un giorno arrivata,
piccola e nera, dai lunghi capelli.
frignava, piangeva, quasi mai sorridente,
ma lei, dal cuor grande, le stringeva già a sé.
trascorrevano i giorni, veloci o tranquilli,
cresceva tra nonne, la mamma, il papà.
la bimba era lei, che fino ad otto anni,
era solo angelo, bruchi e farfalle.
dormiva di un bene che lei augura a voi,
amati oggi, e ieri, e ancora di più.
per tanti bambini, lei, spera di leggere,
strofe sfiorate da una polvere blu.
stringendo più forte, orsetti e peluches.
boccolosa, ed anche, un po' paffutella.
molto timida, ma, sempre sorridente,
prestissimo, lei, aveva imparato a parlare.
sognava di voli, sollevata in quell'aria,
scendeva le scale, ampie di corrimano.
portava la pizza, lei, giù per le scale,
e inciampando scendendo, incredibilmente volava.
le scarpe e calzini, e pizzi e quadretti,
e guance ridenti volando più su.
era di fate, era beata,
era sorrisi, di giorno ogni dì.
bambina era gaia, si sentiva buona,
sempre di tutto, il colore più rosa.
posava per foto, di album a natale,
le mani appoggiate, sulla panchina.
cotone di neve, le sembrava per sempre,
ogni giorno era luci, era uovo sul pane.
con le nonne l'estate, l'acquisto dei fiocchi,
di nastri adornata, attendeva i momenti.
la minuta sorella, era un giorno arrivata,
piccola e nera, dai lunghi capelli.
frignava, piangeva, quasi mai sorridente,
ma lei, dal cuor grande, le stringeva già a sé.
trascorrevano i giorni, veloci o tranquilli,
cresceva tra nonne, la mamma, il papà.
la bimba era lei, che fino ad otto anni,
era solo angelo, bruchi e farfalle.
dormiva di un bene che lei augura a voi,
amati oggi, e ieri, e ancora di più.
per tanti bambini, lei, spera di leggere,
strofe sfiorate da una polvere blu.
accese lucine, di cieli stellati,
di una ninna nanna, di bambagia quaggiù.
di notti e di incubi scacciate i pensieri, stringendo più forte, orsetti e peluches.
09 June, 2011
minesweeper - prologue.
Ieri, alle prime luci del giorno, semi-aprendo gli occhi, ho realizzato che era tutto, solo, sogno.
Ero in ufficio, forse il mio, non so, solo una cosa ricordo come familiare, la tastiera del mio computer.
Ho una tastiera aggiuntiva in ufficio; è una di quelle che tu colleghi come periferica esterna: è più grande, più nera, più veloce, ha più spazio tra un tasto e l'altro - le tue dita, non si inceppano - non ti capita mai di schiacciarne uno per un altro, come adesso, sai sempre, lì, cosa stai premendo, non torni indietro.
La prima immagine che ricordo, è un uccellino, di quelli piccoli piccoli, senza piume, solo pelle, rosa e troppa, che quelle pieghe li caratterizzano; trovo questo essere e altro non fa che pigolare, incessantemente. Una, due, tre volte, finché non arriva un uccello più grande, che inizia, ogni tanto, tra un lamento e l'altro, a sfamarlo. L'uccello, piccolo, sbucava con la testa dalla mia tastiera, nel vuoto lasciato tra due tasti, sulla parte sinistra, dove trovi la lettera effe, era lui, inserito in quella fessura, con la sola testa protesa verso l'esterno, a pretendere cibo.
Secondo ricordo, credevo fosse una balena; questa mattina bevevo un succo di pesca, scendendo dalle scale, ed ho capito: non era una balena, bensì un capodoglio. Lo trovavo in un sacchetto, di quelli trasparenti, come le buste dei pesci quando li vinci alle giostre: osservi attraverso la plastica come si muovono, lui, però, era fermo, ma non morto, solo, non stava nuotando. Nella testa, in quell'istante, solo una domanda: quando cresce, lo tengo nella vasca da bagno? Nella mia realtà, non c'è, la vasca.
Il capodoglio inizia a crescere, finché si arriva al punto che, in quel sacchetto, così sacrificato, proprio no, non può rimanere – nel mio sogno, decido quindi, di farlo scomparire, immaginando, ma non vedendo, l'animale in acque aperte.
Scompare la quasi balena, ricompaiono i volatili. Secondo pulcino all'orizzonte, che guardando la tastiera, un po' decentrati, il primo più sulla sinistra, il novellino invece a destra, sembrano a casa, e urlano di voci stridule, ed incessanti.
Senza sapere bene come, il primo, sempre tra i tasti, lo vedo che inizia a beccare la carcassa di un pollo morto che, magicamente, era comparsa tra i due. Brutale, con la fame, quella vera. E' come guardare un bambino, cannibalizzare un adulto, contro natura, macabro.
Mi giro, mi allontano, contenta di aver scoperto che, dopo tutto, sopravviveranno.
Dopo poco, di nuovo avvicinatami alla tastiera, succede: esalano l'ultimo respiro, con la testa piegata da un lato, entrambi, socchiudono gli occhi, con sofferenza, e spirano.
Apro gli occhi di corsa, è finita, sono le sei del mattino. Ricordo di nuovo perché, per quale motivo il sonno è turbato. Godo, di quell'ora però che ancora mi rimane pre-ufficio, e, finalmente, dormo.
Sveglia alle otto e mezza, con calma, con il sogno stampato in testa, mi calo, bevendo di nuovo il succhetto da merenda all'asilo, giù per le scale, in silenzio, tutti curiosi di sapere di ieri: oggi, io, non dico nulla, “scendo la clèr” e chiudo i battenti: chiamiamolo silenzio stampa, o stanchezza, o ferie e vacanze, e demenza, e non voglia, o riservatezza o come vi pare: non importa.
Forse, se mi andrà, racconterò tre versioni: la mia, la tua, i fatti. La prima persona, la terza, l'onniscenza.
Prologo della una storia di un campo minato.
june 9th, 2011
01:55 am
Ero in ufficio, forse il mio, non so, solo una cosa ricordo come familiare, la tastiera del mio computer.
Ho una tastiera aggiuntiva in ufficio; è una di quelle che tu colleghi come periferica esterna: è più grande, più nera, più veloce, ha più spazio tra un tasto e l'altro - le tue dita, non si inceppano - non ti capita mai di schiacciarne uno per un altro, come adesso, sai sempre, lì, cosa stai premendo, non torni indietro.
La prima immagine che ricordo, è un uccellino, di quelli piccoli piccoli, senza piume, solo pelle, rosa e troppa, che quelle pieghe li caratterizzano; trovo questo essere e altro non fa che pigolare, incessantemente. Una, due, tre volte, finché non arriva un uccello più grande, che inizia, ogni tanto, tra un lamento e l'altro, a sfamarlo. L'uccello, piccolo, sbucava con la testa dalla mia tastiera, nel vuoto lasciato tra due tasti, sulla parte sinistra, dove trovi la lettera effe, era lui, inserito in quella fessura, con la sola testa protesa verso l'esterno, a pretendere cibo.
Secondo ricordo, credevo fosse una balena; questa mattina bevevo un succo di pesca, scendendo dalle scale, ed ho capito: non era una balena, bensì un capodoglio. Lo trovavo in un sacchetto, di quelli trasparenti, come le buste dei pesci quando li vinci alle giostre: osservi attraverso la plastica come si muovono, lui, però, era fermo, ma non morto, solo, non stava nuotando. Nella testa, in quell'istante, solo una domanda: quando cresce, lo tengo nella vasca da bagno? Nella mia realtà, non c'è, la vasca.
Il capodoglio inizia a crescere, finché si arriva al punto che, in quel sacchetto, così sacrificato, proprio no, non può rimanere – nel mio sogno, decido quindi, di farlo scomparire, immaginando, ma non vedendo, l'animale in acque aperte.
Scompare la quasi balena, ricompaiono i volatili. Secondo pulcino all'orizzonte, che guardando la tastiera, un po' decentrati, il primo più sulla sinistra, il novellino invece a destra, sembrano a casa, e urlano di voci stridule, ed incessanti.
Senza sapere bene come, il primo, sempre tra i tasti, lo vedo che inizia a beccare la carcassa di un pollo morto che, magicamente, era comparsa tra i due. Brutale, con la fame, quella vera. E' come guardare un bambino, cannibalizzare un adulto, contro natura, macabro.
Mi giro, mi allontano, contenta di aver scoperto che, dopo tutto, sopravviveranno.
Dopo poco, di nuovo avvicinatami alla tastiera, succede: esalano l'ultimo respiro, con la testa piegata da un lato, entrambi, socchiudono gli occhi, con sofferenza, e spirano.
Apro gli occhi di corsa, è finita, sono le sei del mattino. Ricordo di nuovo perché, per quale motivo il sonno è turbato. Godo, di quell'ora però che ancora mi rimane pre-ufficio, e, finalmente, dormo.
Sveglia alle otto e mezza, con calma, con il sogno stampato in testa, mi calo, bevendo di nuovo il succhetto da merenda all'asilo, giù per le scale, in silenzio, tutti curiosi di sapere di ieri: oggi, io, non dico nulla, “scendo la clèr” e chiudo i battenti: chiamiamolo silenzio stampa, o stanchezza, o ferie e vacanze, e demenza, e non voglia, o riservatezza o come vi pare: non importa.
Forse, se mi andrà, racconterò tre versioni: la mia, la tua, i fatti. La prima persona, la terza, l'onniscenza.
Prologo della una storia di un campo minato.
june 9th, 2011
01:55 am
06 June, 2011
one has two chances: buckley's or none.
(or snowballs chance in hell.)
i più attribuiscono a "buckley's chance", un legame con un department store australiano, buckley & nunn. A me, e sono convinta di non esser la sola, piace di più la meno plausibile storia.
william buckley, detenuto inglese, fu trasferito, durante il suo periodo di prigionia, in Australia; lo si credette morto, riuscì a scappare, visse per anni in una comunità aborigena.i più attribuiscono a "buckley's chance", un legame con un department store australiano, buckley & nunn. A me, e sono convinta di non esser la sola, piace di più la meno plausibile storia.
"buckley's chance" rappresenta quella possibilità altamente improbabile, proprio come quella del nostro william fu, as good as impossible.
qui, si vive nel tunnel di buck, dove tutto è così improbabile che, abituatati a spenderci sull'orlo di un precipizio, semplicemente ci giriamo dall'altra parte, per non soffrire di vertigini e non sapere quanto, quell'orlo, sia solo imbastito.
questa mattina ho temuto che la grammatica fosse errata, e verificando anche l'ovvio, ho scoperto che non era una questione di sintassi, di regole ed eccezioni, di forma: tutto era contenuto, è sempre tutta sostanza.
william avrà vissuto sotto mentite spoglie, non pensando alla forma, essendo chi era, travestito da altro, solo sostanza. william era stato costretto, riuscendo nell'impresa migliore; noi altri, no.
al detto "di necessità, virtù", preferisco, di gran lunga, la chance di buckley.
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